Avevo da pochi giorni finito di leggere un libro scritto da un’amica che trattava la violenza sulle donne e che mi aveva molto colpito. (Il libro si chiama CATERINA SCAPPA SCA’, di Annapatrizia Settembre, LO TROVATE QUI.) Attraverso la storia di Caterina, personaggio inventato che subiva violenza dal marito, il libro ripercorreva tutti i casi tristemente noti di violenza domestica dati alle cronache.
Come tutti i libri ben scritti, mi aveva fatto completamente immergere in quella atmosfera di paura e rassegnazione che le donne vivono in queste situazioni, lasciandomi molto scossa. Così, quando quella mattina arrivai in aula per la mia udienza, seduta tranquilla in attesa che entrasse il mio imputato nigeriano, stavo giusto ripensando al libro e a quello che avevo appreso di queste tristi situazioni quando, improvvisamente, la vidi alzarsi, e accomodarsi al banco dei testimoni.
Era bassina, bionda coi colpi di sole, capelli lisci e lunghi, una faccia bellissima, la classica faccia napoletana con occhi scuri e intensi e uno sguardo fiero. Iniziò a parlare e io iniziai a capire. Eccola lì, una Caterina in carne ed ossa, come uscita dal mio libro.
15 anni aveva subito lei, di violenze dal marito. La sentimmo raccontare cose raccapriccianti, di violenze fisiche ma anche mentali. Come quella sera della vigilia di Natale, in cui, preparati i bambini, i regali per i nipotini, i figli della sorella, e per i suoceri, preso dal forno il ruoto di capitoni già fritti così si dovevano solo riscaldare (aveva fatto una bella faticata, tutto da sola, vostro onore, e a lei neanche piaceva il capitone fritto), pronta per uscire e andare a festeggiare a casa dei suoceri, la nostra Caterina si vide strattonare e chiudere in bagno a doppia mandata dal marito, che non gradiva come si era vestita. A nulla valse implorarlo, piangere, promettere di cambiarsi d’abito, scusarsi (ma poi di che vostro onore, quello il vestito glielo aveva regalato proprio sua madre, la suocera, perciò lo indossava quella sera, per una sorta di riguardo verso di lei!). A nulla valsero i pianti sommessi dei bambini (era già da un po’ che non osavano più piangere ad alta voce, signor giudice, per paura delle sue reazioni) che giustamente volevano passare la vigilia con la loro mamma. Lui la lascò lì, chiusa in bagno, tutta la sera, e se ne andò a festeggiare il santo natale con la sua famiglia.
L’odierna Caterina raccontò che non ricordava bene quando, ma a un certo punto le botte erano diventate quotidiane: magari la cena non gli piaceva e allora rovesciava il piatto, glielo lanciava addosso, la insultava, la umiliava. E lo faceva davanti ai bimbi.
Ogni tanto il suo racconto era interrotto dal giudice che chiedeva, ma lei signora, perché non se ne andava, perchè non lo lasciava? E la risposta era sempre la stessa, per paura, vostro onore, specie per i bimbi, che lui minacciava d’accidere, me e loro, int a una bott, accussì diceva semp.
Una volta raccontò che ci aveva anche tentato di andarsene, di tornare da sua madre coi bimbi, ma lui si era messo sotto al palazzo giorno e notte citofonando a tutte le ore, impedendole di uscire anche per fare la spesa. Alla fine, anche spinta dai suoi genitori, che in fondo non le credevano, le ripetevano che lui era un brav’uomo, che lei doveva sopportare le sue stranezze, si era rassegnata a tornare a casa. Altre vie d’uscita non ne vedeva, anche perché la cosa non sembrava così grave a nessuno, parenti, amici, conoscenti, sembrava che tutti lo giustificassero, lui e le sue crisi d’ira.
Embè, oggi i bimbi si so fatti grandi, già faticano, anche se sono ancora minorenni, e io sono libera dalla paura, signor giudice. Ho capito che la cosa peggiore che posso fare è starmi zitta. «Statti zitta, deficiente, stronza, puttana» è quello che mi diceva sempre. Ma adesso stare zitta aiuterebbe solo lui. E nun va buon accussì. Mò aggia parlà.
La mia Caterina raccontò che diverse volte era stata accompagnata all’ospedale sia da amici che da parenti, e a questo proposito il suo avvocato chiamò a testimoniare la di lei sorella, e così lei fu fatta uscire, come si usa fare ai processi.
Costei, una bella ragazza anche lei, un po’ più alta e coi capelli castani, ma stessi occhi intensi e scuri, si alzò proprio dalla mia fila di sedie, essendo seduta non lontano da me.
Con fare fiero e sguardo sfacciato si avvicinò al banco dei testimoni e lesse la formula del giuramento, poi fu interrogata. Era vero che aveva accompagnato la sorella all’ospedale quella mattina di maggio così così così? Era vero, certo, signor giudice, e qui abbassò leggermente lo sguardo a cercare i suoi piedi, ma se debbo dire che era stata picchiata questo no, non posso dirlo, perché io la accompagnai sì, signor presidente, ma come sapevo io era caduta dal motorino, a me non è mai risultata nessuna violenza, vostro onore, rialzò la testa e guardò la corte, assolutamente, mai, maj. Rimanemmo tutti agghiacciati in aula, chiedendoci sicuramente ognuno in cuor suo perché mai avesse mentito così spudoratamente e se sarebbe mai riuscita a farlo anche davanti alla sorella. Ma forse si. La donna terminò la sua deposizione, si alzò e tornò a sedersi alla mia fila, accanto a un signore al quale si rivolse subito dicendo, a bassa voce e fra i denti, comme so giuta?… aggio ditto buon? Nessuno la sentì, in aula. Solo io.
Caterina mia, che tristezza mi calò in cuore in quel momento, la cosa più difficile è ancora essere creduta, sostenuta, aiutata, perfino dalle nostre sorelle.
Mentre lasciavo il tribunale insieme all’avvocato che mi rassicurava sul fatto che nonostante la testimonianza della sorella della vittima, l’uomo avrebbe avuto la sua giusta punizione, essendo i tribunali diventati intransigenti e la legge più precisa sulla violenza domestica dopo tante vittime, vidi le due donne uscire dai cancelli, prima la sorella, che si fermò ad aspettare fuori, poi la vittima. Le vidi guardarsi in faccia, con quegli occhi intensi si stavano dicendo tutto, e quello sguardo mi sembrò che durasse un’eternità. Poi le vidi avviarsi insieme e quando passarono affianco a me sentii la bionda dire alla sorella … e che hai cucinato oggi?
visita il sito del ministero che sostiene le donne vittime di violenza
Non ti smentisci mai Amica mia ♥️ anche quest’altra tua esperienza è arrivata dritta al mio cuore , portandomi a fare una riflessione e cioè che l’essere umano nonostante tutto è anche tanto tanto fragile …❤️
L’inferno delle donne, quante volte siamo state “Caterina” riconoscere la violenza é il primo passo verso la consapevolezza e la presa di coscienza di aver subito un aggressione verbale psicologica; lo dici bene nel racconto, offese e maltrattate, bersaglio di terribili atti violenti! Grazie n racconto questo che serve a tutte noi, per continuare a combattere per cambiare il sistema patriarcale maschilista, culturale. Bravissima
Grazie a te x leggermi, nn è scontato nell’epoca dei cellulari 🙄
E siamo tutte Caterina ❤️ L’importante è scappare quando ce ne rendiamo conto 😉
Grazie di questo racconto …. La violenza più grande e’ far finta di nulla….. e le ferite rimangono a vita siano esse violenze fisiche o psicologiche! … sec me L unica via di uscita e ‘ farsi aiutare,0percorso lungo e doloroso ma salvifico!