Fui convocata di venerdì santo, potrei dire per ‘scagno’, sicuramente perché l’interprete usualmente designato era in vacanza, e arrivai alla mia prima convalida d’arresto, al carcere di Secondigliano, giusto qualche minuto prima dell’ora indicata nella convocazione. Curiosa come un gatto, non avevo ancora mai svolto quel lavoro e per di più non ero mai stata in una prigione, mi siedo ad aspettare che la guardia mi faccia entrare oltre il gabbiotto di alluminio che ci ospita. Carcere di Massima Sicurezza. Caspita. Qua ci sono i peggiori criminali, assassini, stragisti, trafficanti internazionali di organi di bambini o di droga.

‘Dottoressa’ sento chiamare. Mille lavori ho fatto in questi 30 anni, dai 18 in cui pur studiando ancora lavoravo nei fine settimana e d’estate, ai 48, età in cui chiusi (pensavo) con il dietro le quinte di cinema e televisione, e nessuno mi aveva mai chiamato dottoressa. Infatti non mi giro. ‘Dottoressa’ ripete la guardia ‘DOTTOREEE’ ’ insiste avvicinandosi ‘la accompagno dal giudice, prego, lasci la borsa qua che entriamo.’ Quindi dice proprio a me. Effettivamente la Scuola Interpreti oggi è diventata una minilaurea, per cui lo sono, dottoressa. Bello dottoressa, ci sta dottoressa, mi piace dottoressa. Jamm a verè. Mi ero seduta normale e mi alzo da dottoressa.

CLANG CLANG – cancelli che si aprono, chiavi enormi che girano nelle toppe. Quelli davvero fanno CLANG CLANG i cancelli delle carceri, e che impressione quando questi CLANG li senti dietro a te, mentre entri… CLANG CLANG e ancora CLANG CLANG CLANG e la guardia mi precede in un lungo corridoio con tante celle e anche delle porte da un lato, mentre di fronte ampie vetrate con sbarre affacciano su un grande orto ben curato e sulla destra un campo di calcetto e basket. Solo un prigioniero che cura l’orto, per il resto il grande cortile interno sembra vuoto.

Una delle porte sulla sinistra è aperta e noi ci entriamo. Tre donne sono sedute ad una scrivania proprio di faccia all’ingresso e di fronte a loro ci sono altre due sedie. La giudice, la praticante e la cancelliera mi salutano cordialmente, salve DOTTORESSA… -sguardo sul foglio -…Villani, e ci stringiamo la mano, poi mi indicano la sedia di fronte a loro e io mi accomodo. La giudice dà ordine alla guardia di andar a prendere il primo prigioniero.

‘Che fortuna che fosse libera oggi, dottoressa, venerdì santo, c’era pericolo di decorrenza termini e questi qua trafficano eroina, non era proprio il caso di lasciarli liberi…’ mi dice la giudice

‘Fortuna mia, dottoressa’ rispondo io. Fra dottoresse ci capiamo 😉

Primo interrogatorio della mia vita, facile facile:

Domande tipo chi sei che fai dove vivi dove alloggiavi a Napoli ecc. ecc., fin qui niente di male. Il loro inglese ha un forte accento africano ma è abbastanza comprensibile, ho con me una penna e un taccuino su cui appunto le risposte degli imputati e poi riporto il discorso per intero alla giudice, proprio come ho imparato alla scuola interpreti. Fantastico che mi stia tornado utile adesso a quasi 50 anni, penso soddisfatta mentre scrivo a testa bassa passando nella mia mente dall’inglese all’italiano la voce che si sente nella stanzetta silenziosa e attenta.

Gli imputati sono stati tutti e tre interrogati e sono stati accompagnati nella cella accanto in attesa. In attesa di cosa? Io mi sento serena perché penso che poi in fondo come prima volta mi è andata bene, non era poi così difficile, niente termini in legalese che ancora non so neanche cosa significano in italiano. Appena torno a casa devo riprenderne lo studio e aggiornare il mio vocabolario assolutamente, penso. Ma mentre sto già pregustando la libertà, e la sigaretta che accenderò una volta fuori, capisco che ho cantato vittoria troppo presto, perché la giudice mi fa chiamare e rientrare in cella.

‘Dottoressa, adesso scriverò la sentenza, non ci sono i tempi per affidarle l’incarico ed attendere la traduzione scritta a beneficio degli imputati, quindi se non le dispiace, la traduca direttamente a loro a voce alta non appena pronta, qui di fronte alla corte’.

Non era una domanda, né una richiesta, quella della giudice, era una constatazione, un dato di fatto, così era e così doveva essere e non sembrava ci fosse modo di fare alcuna obbiezione al suo comando. Io faccio di sì con la testa come se fosse stata la cosa più normale del mondo e dentro di me mi tremano un po’ le ginocchia.

Entrano i tre imputati, ognuno col suo avvocato. Dietro di loro due guardie armate che anche entrano e si sistemano in piedi con le spalle al muro. Sono tutti in piedi di fronte al giudice e io sono la sua ausiliaria. Del giudice. Insomma, sono la sua voce tradotta nella loro lingua. Per cui sono al lato della scrivania, in piedi, rivolta agli imputati.

La giudice mi ha dato pochi minuti fa la sentenza che adesso ho in mano e a cui ho potuto dare una veloce lettura. Legalese a più non posso. Aiuto. Vengono lette (e da me tradotte) le frasi di rito e poi la giudice mi fa cenno di iniziare. Ho i fogli dritti davanti a me e tutta questa folla di gente che ascolta. Tutti addetti ai lavori che parlano legalese senza problemi, e semmai parlano anche inglese, che non è una lingua poi così sconosciuta, penso…

E tuttavia non sono scoraggiato’ mi viene in mente questa frase del Budda, e allora, coraggio! Inizio a tradurre. Non ci sta tempo di fermarsi a capire la frase nel suo insieme, la giudice mi incalza, se rallento un attimo lei mi fa ‘dottoressa, prosegua’. E quindi una valanga di parole rotolano fuori dalla mia bocca come un fiume in piena e quando non so cosa sto traducendo, traduco lo stesso, mi butto: isolamento, isolation, attribuzione, attribution; leggo tutto d’un fiato senza mai fermarmi e senza guardare oltre il mio foglio. Penso che se sto traducendo male gli avvocati potrebbero appellarsi e far scadere i termini… non sono esperta ma sento di avere una responsabilità in questo momento… ce la metto tutta, mi concentro e poi, quando ho finito l’ultima parola dell’ultimo rigo dell’ultimo foglio della sentenza, calo giù le mani aggrappate ai fogli, alzo gli occhi a cercare quelli dell’imputato che sembra il capo della banda e gli chiedo: did you understand? Ora dice no, ora dice no, ne sono certa, ora dice non ho capito un cav… ‘YES’. Sospiro di sollievo interiore non indifferente. Sono salva.

Questo fu il principio. In principio fu il verbo, sarebbe il caso di dire citando l’antico testamento (a proposito, pare che la traduzione usata in quel frangente, il verbo, fosse errata; pare che la giusta traduzione invece sarebbe dovuta essere in principio fu la vibrazione... cosa che cambia tutto, se ci pensate, perché il verbo va pronunciato da un essere, ed ecco che avremmo un indizio della presenza di Dio, il Dio creatore; mentre invece la vibrazione è solo un suono, il suono della vita che nasce, qualche molecola di carbonio che si innesta con una di idrogeno, insomma spiegherebbe la vita che nasce da se stessa, che non smette mai di modificarsi e cambiare, spiegherebbe certamente il dinamismo dell’universo; magari ciò avrebbe portato l’umanità a comprendere che l’insieme delle vibrazioni che ancora produciamo e raccogliamo sul pianeta, riveste grande importanza, fa la differenza fra vita e morte. E questo per dire quanto è importante il lavoro di traduttore… questo qua ha cambiato le sorti dell’occidente in fondo. E qua ci vorrebbe un altro libro e quindi lasciamo stare questo discorso. Per adesso).

Il processo durò quasi tre anni e una trentina di udienze, quindi rividi quegli imputati per tutto questo tempo. Del capo, che si chiamava Tombatomba ed era accusato di mandare nella tomba tanta gente spacciando eroina, notavo sempre le mise eleganti: scarpe da ginnastica costosissime e anelli d’oro che immagino sfoggiasse solo in udienza. Il suo avvocato lo avevo visto solo in televisione alle prese con un famoso caso di cronaca, veniva dal nord Italia.

La loro tesi era che il signor Tombatomba, noto imprenditore africano possessore di due miniere di brillanti, non aveva alcuna necessità di trafficare in eroina dato che era già ricco. Diciamo che come tesi difensiva, specie fatta da un grande e famoso avvocato, non sembrava reggere granché neanche a me che non ne so niente… immaginavo ai giudici… che infatti nella sentenza finale emessa anni dopo, e che naturalmente io dovetti tradurre, sostenevano che fosse proprio la disponibilità di tanto denaro che rendeva il signor Tombatomba ai loro occhi un possibile organizzatore e finanziatore di enormi traffici di sostanza stupefacente… giustappunto, è quello che avevo pensato tutto il tempo.

Il suo scagnozzo si chiamava Suleiman, a me suonava come un su-le-mani, ed infatti caso aveva voluto che fosse stato proprio lui a far scoprire tutta la banda. Le indagini infatti si erano basate da principio su intercettazioni telefoniche che non era semplice attribuire all’uno o all’altro, in quanto i soggetti indagati cambiavano continuamente scheda telefonica, sgusciando dalle mani degli inquirenti come i capitoni nelle cucine di Natale.

Ma il povero Suleiman, onesto padre di famiglia e spacciatore di eroina, un pomeriggio verso ora di pranzo riceve prima una telefonata da Tombatomba che gli comunica in codice – codice però ormai sgamato dagli inquirenti – che la roba sta per arrivare a Napoli, e subito dopo, chi lo chiama? La moglie! Su quel numero gli dice chiatto chiatto di andare a prendere i bambini a scuola e portarli da sua madre, che abita in via tal dei tali e al citofono c’è scritto così e così. Zac! Beccato. Su-le-mani! Beccati tutti e tre a catena.

Ah santa donna! Ma tu vedi se tre onesti spacciatori internazionali di eroina si devono fare chi 7, chi 15 e chi 24 anni galera (così andò a finire) perché una moglie deve dare ordini al marito… ah santa donna! E mò chi ci penz ‘ai criature?

torna al primo racconto di AVANZI DI GIUSTIZIA 2.0

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